LA BESA

 

 

 

 

 

di Terry Paternoster

con Ermir Jonka

assistenti Pierfrancesco Rampino, Eleonora Cadeddu

LA BESA

Benvenuti all’inferno!


Sinossi

La Besa rappresenta uno dei principi cardine del Kanun, il più importante codice orale della tradizione albanese. L’idea di Besa è così presente in Albania, all’interno del comune sentire, che compare in diverse fiabe popolari: i bambini imparano sin da subito che la Besa è una parola irrevocabile che presuppone l’assumersi un impegno che dovrà essere portato a termine ad ogni costo.

Ma cosa succede se un figlio promette a sua madre di tornare a casa vivo insieme a suo fratello, e invece dopo una traversata clandestina nelle acque buie e gelide del Mediterraneo, il fratellino viene inghiottito dal galoppo mortale delle onde?

La posta in gioco spesso è la vita stessa di chi tradisce l'onore e la tradizione; perciò "LA BESA" sarà il motore che indurrà il protagonista a lottare contro il mare; una lotta impari, una lotta fino all'ultimo respiro; per un'elaborazione poetica di una delle più crude e drammatiche facce dell'immigrazione.


Note di regia

“Ricordate, ricordate sempre, che tutti noi, e tu ed io in particolare, discendiamo da immigrati”. (Franklin D. Roosevelt)

“La Besa” è un assolo di teatro incivile, dedicato alle vittime del naufragio della Katër i Radës, noto anche come tragedia di Otranto o tragedia del Venerdì Santo: un sinistro marittimo avvenuto il 28 marzo 1997 all'omonima motovedetta albanese (in italiano: Battello in rada). La nave, carica di circa 120 profughi in fuga dall’Albania in rivolta, entrò in collisione nel canale d’Otranto con la corvetta Sibilla della Marina Militare Italiana, che ne contrastava l’approdo sulla costa italiana. Lo scontro causò la morte di più di 100 uomini: 81 corpi recuperati, una ventina di dispersi e 34 superstiti. La storia non si ferma, si ripete fino ad oggi, come un disco rotto.

È così che il “teatro incivile” a cui assistiamo quotidianamente, si fa strumento di riflessione sul concetto di civiltà; una civiltà che sta perdendo la memoria. Ricordare è un’abilità che si perde con l’età, si ricordano sempre meno cose, forse perché si acquisiscono sempre più informazioni e, per spirito di adattamento, liberiamo spazio per inserire nuovi dati. Nei meandri dell’umana memoria, è possibile rimuovere informazioni superflue, ma le facce di una politica repressiva, che ignora la sofferenza di milioni di esseri umani costretti a fuggire in nome della libertà, restano impresse nella mente come tracce indelebili.

Quando penso all’immigrazione mi viene in mente la doppia faccia del dio Giano, rappresentato dall’iconografia classica come una divinità bicefala, un’antica divinità con una testa e due volti contrapposti, entrambi barbuti, una caratteristica che lo accomuna alle divinità indiane del periodo pre-vedico, che secondo la leggenda consentono al dio di vedere il futuro e il passato; il cui attributo più specifico era di proteggere ingressi e passaggi, porte di case e di città, custode di ogni forma di mutamento, e protettore di tutto ciò che concerne una fine e un nuovo inizio.

Anche l’immigrazione ha una doppia faccia, come Giano, e coinvolge in modo diretto l'Italia, terra di approdo di molti migranti, che fuggono dalla guerra; o di fuga, per chi cerca di dare un senso agli investimenti spesi per l’istruzione, come spesso accade nel nostro Paese. Sempre in cerca di condizioni di vita migliori, l’uomo si sposta, viaggia, cambia luogo, oltrepassando confini immaginari, creati unicamente per finalità geopolitiche; ma spesso il “viaggio della speranza” cede il passo alla tragedia: un viaggio che costa caro prima e dopo; condizioni disumane sulle imbarcazioni, morti dispersi in mare, e chi ce la fa si ritrova a lottare per la sopravvivenza, per ritrovare la sua dignità di essere umano in terra straniera, dove la paura del diverso impedisce di guardare oltre e di vedere la diversità come ricchezza.

Purtroppo il fenomeno oggi ha una terza faccia. Con il crescere degli attentati terroristici si è diffusa la cosiddetta “paura dell’immigrato”. Lo straniero è visto da molti come un possibile foreign fighters dell’Isis; così il sogno di libertà si confronta con la realtà di chi perde denaro e dignità, e spesso anche la vita. Com’è possibile che in una società che si definisce civile, in cui tutte le culture si incontrano a livello globale, ci sia ancora discriminazione? E’ vero che lo straniero è una minaccia perché appartenente a una cultura diversa? Oppure si teme che la sicurezza possa subire attacchi da qualcosa di non riconoscibile? Cosa ci ha insegnato il passato, cosa ci riserverà il futuro alla luce di ciò che ci sta offrendo il presente? La funzione del teatro non è quella di dare risposte, ma far emergere queste e altre domande, in una manifestazione di unione civile che ci renda attivi e partecipi alla vita “politica”, come cittadini e come uomini con uno sguardo al presente e uno al passato, quando la Polis era partecipazione dei cittadini al governo e, non casualmente, poneva il teatro al centro della vita quotidiana.

Descrizione dello spettacolo

“La Besa” mette a confronto tre generazioni di abusi politici, subiti dal popolo albanese: dalla dittatura comunista di Enver Hoxha, alle più recenti lotte studentesche contro la riforma dell’istruzione superiore, contro le false promesse di crescita, contro gli insostenibili aumenti delle imposte, contro il profitto di pochi a discapito della “massa dei deboli”.

Il testo è interpretato da Ermir Jonka, un giovane e promettente attore albanese, che ha contribuito, con la sua testimonianza, a dare voce alla memoria di un popolo che conserva ancora oggi gli esiti di un lungo periodo di pesante dittatura. Tuttavia “La Besa” si presta alla lettura di un’immigrazione che non ha colore, né connotazione geografica, un’immigrazione senza luogo e senza tempo.

Lo spettacolo si apre in medias res, con l’immagine traslata di un nuotatore olimpionico, in piena attività agonistica, intento a nuotare per la medaglia. Lo sforzo fisico, una bracciata dopo l’altra, culmina finalmente nella vittoria; e l’attenzione mediatica verso “l’eroe”, incoraggia il campione a rivolgersi alle telecamere per presentarsi e salutare sua madre.

La madre è una figura chiave e, nel suo significato più esteso, diviene rappresentazione universale della Grande Madre che influenza la nostra vita. Affiora senza mai apparire, mentre la metafora del nuotatore che lotta per la vittoria, diviene presto archetipo del migrante che nuota per la sopravvivenza.

Il giovane che nuota in mare aperto, immagina di arrivare per primo sulle coste europee e di aspettare il suo fratellino, archetipo del sè. Il tempo passa e l'attesa diventa necessità di sopravvivenza, tentativo di integrazione, rifiuto, povertà, solitudine e consapevolezza che quell’attesa non finirà mai.

E la tragedia del Venerdì Santo rimonta in superfice insieme all’immagine di un figlio che non riuscirà mai a mantenere la sua “besa”, che in albanese vuol dire “promessa”, con lo stesso valore che ha per noi il vecchio codice d’onore; un codice non scritto, che obbliga chi ha dato la sua parola, a mantenerla a costo della vita. Il figlio che, prima di partire, ha promesso a sua madre -non ti lascerò mai sola-, è lo stesso che nuota per la vita nelle acque gelide del mediterraneo, insieme alla sua gente, ai suoi fratelli.

Così anche il mare diviene archetipo del nemico, il mare che inghiotte e nasconde, il mare che uccide rimanendo impunito. Archetipo di una piaga ancora viva. La madre che non appare, diventa il centro focale della tragedia: la morte del figlio, una ferita inguaribile, un dolore che non conosce giustizia. E si torna alla realtà, davanti al triste epilogo di chi ancora oggi combatte il suo nemico, chi ha scelto di lottare per la vita, per la libertà, fino all'ultimo respiro.

Il testo è solo un pretesto per stringerci e rendere omaggio alle vittime di una strage che continua a ripetersi; un pretesto per stare insieme abbattendo confini ideologici e geografici, un pretesto per aprire un nuovo varco alla memoria, su cui si fonda la nostra identità, la nostra appartenenza, la nostra civiltà; su cui si costruisce un codice di valori condivisi, che deve suggerire nuovi equilibri politici e assetti sociali.

L’augurio è che il “teatro incivile” a cui assistiamo ogni giorno, possa ritrovare il suo assesto in una dimensione di “civiltà”, in cui siano presenti espressioni di connessione tra presente e passato, anche grazie all’impegno artistico, civile e letterario, affinché la voce del popolo possa riappropriarsi dell’antico valore della democrazia, e torni ad essere vero oggetto di riflessione, per una più consapevole e umana azione politica.

Terry Paternoster